Morto un Amadeus se ne fa un altro. Ma cosa ci lascia l’Era amadeusiana? Cosa non ha funzionato nella sua ultima edizione? Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro di Sanremo? Non lo so, ma quest’anno la kermesse ha svelato più segreti di Pulcinella e infranto molte illusioni. Provo a parlarne oggi, in ritardo, ma sicuramente in tempo utile per il prossimo anno – col dubbio che il Festival non sarà più così rilevante per noi.
Chi mi segue da abbastanza tempo sa bene quanto sia importante per me il Festival di Sanremo. È spudoratamente pop, è analisi sociale, è fenomeno di massa, specchio del nostro paese (in parte) e, soprattutto, delle dinamiche discografiche che stanno dietro a quelle playlist che tanto ci ascoltiamo. Poi, su quanto ci sia di negativo e sbagliato, sono pronta a parlarne quando volete davanti a una merenda. Detto questo, probabilmente il motivo viscerale che mi portò ad aprire questa newsletter era proprio quello di avere un mio spazio dove poter parlare liberamente di Sanremo – oltre alle quindici chat con amicə e sconosciutə dell’internet. Ovviamente non l’ho mai fatto perché, bè... semplicemente io. Però, non tutti i ritardi vengono per nuocere. Anzi, il mio pessimo tempismo ha voluto che alla fine ne parlerò oggi, dopo un’edizione che ha offerto, nel bene e nel malissimo, spunti di riflessione interessanti. E, chissà, forse l’ultima a cui dedichiamo il nostro tempo e i nostri meme.
Talmente tanti pensieri che non so da quale iniziare. Rompo il ghiaccio con una chiacchierata che ho avuto il piacere di condividere con Ravioleria 95, un podcast di tre amicə che, da ormai tre anni, mi ospita per commentare insieme il Festival. La puntata che abbiamo registrato mi ha acceso molte lampadine e quindi direi di partire da qua.
1. La Noia
L’ho detto e non ho paura di ripeterlo: Sanremo 2024 mi ha fatto rimpiangere Achille Lauro. Parole forti, soprattutto se sapete la mia opinione a riguardo. E se il circo che abbiamo sempre criticato, odiato e, soprattutto, memato fosse esso stesso il Festival? Risposta facile: sì. Tra i vari elementi e coincidenze che hanno reso il Festival di Amedeus un’Era d’oro per la kermesse, c’è sicuramente l’aver intercettato e incanalato nella macchina le tendenze del Web e del pubblico. Non è una cosa da geni, ma semplice analisi di mercato – che lui è stato molto bravo a fare. Così, negli ultimi cinque anni, ci siamo ritrovatə a essere non solo pubblico, ma anche forza-lavoro del Festival amadeusiano – non pagata, ovviamente. Senza scendere nei dettagli, ripercorrendo le edizioni che hanno trasformato un evento televisivo con un piede nella fossa nell’evento mediatico più seguito in Italia, possiamo semplicemente constatare che nella ricetta magica del direttore artistico c’è sicuramente il nostro contributo. Virginia W. Ricci lo spiega meglio di me qua, ma il succo è che il grande, rinnovato successo di Sanremo è merito nostro.
Come dicevo, la bravura di Amadeus e del suo team è stata quella di intercettare le tendenze “reali” che potevano rendere virale e accattivante il Festival, prenderle e metterle in scena sul palco dell’Ariston, in una sorta di meta-parodia dell’Internet. Ma, attenzione, non si doveva svelare il trucco al grande pubblico. Così, complice anche una quarantena che ci ha costrettə a casa, ci siamo ritrovatə ad assistere al The Truman Show della nostra vita online – e ci è piaciuto! Per farla breve (non sarà breve), siamo statə prodotto e cliente allo stesso tempo.
Fin qui tuttə d’accordo. Negli anni abbiamo visto come siparietti, gag, artistə della “nostra generazione”, topic di attualità e personalità del momento sono stati aggiunti nel lungo copione delle serate. Si è andato a rafforzare il patto tacito tra TV e Internet, un dare-avere che ha creato un loop memetico efficace e soddisfacente. Così, talenti in erba, ma amati dalla TikTok Generation, vengono lanciati sul palco dell’Ariston per l’alta causa dello share, il trash in nome del meme si consuma e siparietti fastidiosi esasperano la conduzione. Tutto per il fine ultimo di creare uno show d’intrattenimento, ma, soprattutto, chiacchierato. Non solo, uno spettacolo corale, nel vero senso del termine, ovvero che lo dirigiamo noi con i nostri meme, le nostre battute online, i nostri commenti, i nostri temi del momento e le nostre simpatie o antipatie.
Poi qualcosa si è rotto. Come ci insegna la mamma fin da quando ne abbiamo memoria: “il gioco è bello quando dura poco” – e direi che cinque anni è anche troppo. Tutti quei meccanismi e “giochetti”, che fino all’anno prima sembravano spontanei e genuini, hanno non solo stufato, ma anche rivelato al grande pubblico di essere ben studiati a tavolino. Il primo passo falso è stata l’egemonia del Fantasanremo, da simpatica canaglia che si insinuava al Festival a discapito dei Big a markettata pianificata. Ha smesso di far ridere nel momento in cui tuttə volevano far ridere, come un papà che ha scoperto i video su YouTube e te ne manda dieci al giorno – che ovviamente non faranno ridere. Insomma, anche il meme ha la sua dignità, e memare a ogni costo è contro l’etica dell’Internet.
Ma soprattutto, si è rotto il patto tacito tra Televisione e Social, secondo il quale i secondi memano la prima se quest’ultima ne è ignara. Ovviamente non lo è, ma la bravura sta nel creare questa illusione. Il Festival di Sanremo, invece, ha spezzato l’incantesimo. Non solo con un Fantasanremo che ormai detta il copione delle serate, ma anche col coinvolgimento di personalità, artistə e molto altro ben pianificato, ma ormai sgamato. Così La Sad non ha più sconvolto perché “era la quota Achille Lauro” e gli sguardi d’intesa tra Ama e il suo Ciuri non hanno emozionato perché “l’abbiamo già memato due Festival fa”, mentre la borsetta scippata alla signora in prima fila non fa più scalpore perché è diventata una noiosa tradizione, e così via.
Ora, tornando a cinque paragrafi fa, questo Sanremo 2024 sorprendentemente è riuscito nell’impresa di essere: noioso. Dopo una precedente edizione farcita, ingozzata, piena fino a strabuzzare di meme, gag, monologhi, ospiti e artistə in gara ben selezinatə, quest’anno sembra che ci sia stata un’inversione di rotta verso acque più rassicuranti. Non so dire se è stata una scelta artistica o politica, visto che la precedente edizione aveva fatto incazzare non poco i dirigenti, ma quel che è certo è che abbiamo assistito a una versione decisamente più democristiana. Piacevole, certo, ma mancava qualcosa. Cosa? Il nostro intrattenimento. Anche qui, non so dire se la scelta sia stata dettata dalla volontà di far brillare sotto i riflettori solo il Re Amadeus, visto il suo ultimo anno alla direzione, o se invece si è trattato di controllo dai piani altissimi – e visti gli imbarazzanti risvolti dei giorni dopo, penso sia molto probabile. Fatto sta che tutto è filato liscio. Liscio come un programma Rai dovrebbe andare, rassicurante e prevedibile. Anzi, di più: ci hanno tolto anche il solito cringe degli show televisivi. Apprezzato il gesto di ripulire lo spettacolo da gag forzate, sensazionalismo, monologhi paternalistici e temi sociali all’ordine del giorno, ma se da un Festival televisivo togliete il “camp” che tanto ci piace commentare, cosa resta? La noia, appunto. Dominati la spontaneità, o presunta tale, la genuinità dei guest, qualche passo falso e un po’ di sano cringe, cosa resta a noi dell’Internet da memare?
2. Ho visto lei che copia lui, che copia lei, che copia me
Ma il Festival di Sanremo è soprattutto musica. E com’è stata la musica? Ahimè, deludente. Non fraintendetemi, come per l’intrattenimento, anche la direzione artistica è stata piacevole, però dalla kermesse della canzone italiana, la manifestazione canora seguita in mondovisione, l’apoteosi del pop, può un “piacevole” essere soddisfacente? Manco vi rispondo.
Capolavori della nostra tradizione musicale hanno mosso i primi passi sul palco dell’Ariston, ma anche tante ciofeche che spesso vengono dimenticate – tra le canzoni più brutte, menzionata anche Che brutto affare di Jo Chiarello, a mio avviso grandissimo capolavoro e manifesto personale. Non solo, la manifestazione, nel corso dei secoli, ha coniato un vero e proprio stile musicale ben riconoscibile, passato alla storia come “à la Sanremo”. Detto questo, prendendo in considerazione gli ultimi anni di cui tuttə abbiamo meglio memoria, c’è stato un momento spartiacque che ha dato una botta di vita al Festival, dimostrando che si può fare del pop sanremese fresco e cool. Sto parlando del 2019, edizione vinta da Mahmood con Soldi che avrebbe cambiato le sorti della competizione – e non era ancora arrivato Amadeus, la direzione artistica e la conduzione erano in mano a Claudio Baglioni. Quel soldi soldi (clap clap) ha cambiato le carte in tavola, aprendo la strada verso una nuova Era, non solo per il Festival, ma per l’intera discografia mainstream.
E così il Caso Mahmood è diventato un modello, nel bene e nel male, ma direi più nel bene, seguito qua e là da etichette o altrə artistə, o chiamato all’opera per il suo tocco magico – Andromeda di Elodie, Chiamami per nome di Francesca Michielin e Fedez, e Nero Bali sono scritte da lui, ad esempio. Tutto questo per dire che quella vittoria alzò l’asticella della qualità della competizione, aprendo le danze a un Festival di Sanremo decisamente più ricettivo verso nomi emergenti e sonorità “sperimentali”. Sicuramente una strategia mirata all’intrattenimento e al pubblico, ma che ha rinvigorito anche la direzione artistica. Quindi, per quattro anni siamo statə viziatə da Babbo Amadeus che ha saputo catalizzare novità, gusti, trend, ecc… (vedi sopra) anche nella musica. Cosa buona e giusta perché, per tornaconto o per mecenatismo, il palco dell’Ariston si è ringiovanito e la competizione si è fatta più elettrizzante.
Ma anche in questo caso qualcosa si è rotto. Come il patto tacito tra TV e Internet, anche quello tra Festival e Discografia si è palesato perfino al grande pubblico. A perderci lo show, non più spettacolare e degno del suo nome, e il pubblico, ormai disilluso. Che Sanremo sia una vetrina promozionale lo sappiamo (quasi) tuttə, ma accettiamo il compromesso pur di assistere a una competizione canora che ci faccia divertire e appassionare, dove tutto vale, anche il trash. È la Settimana Santa della Canzone Italiana e quel che vogliamo vedere è il camp della nostra musica e artistə al massimo della loro performance. Chiediamo troppo? Evidentemente sì, perché quest’ultima edizione ha ricordato più un Festivalbar che un MET Gala. Per carità, niente contro il Vangelo delle hit estive, l’evento culto di un’intera generazione, ma, come ben ricorderete, si trattava di uno showcase in playback durante il quale i Big dell’Estate Italiana™ facevano un bagno di folla cantando i loro successi del momento.
E Sanremo 2024 è stato un po’ questo, con la differenza che non c’erano i lunghi capelli di Federica Panicucci e la folla era meno gasata – a parte il figlio di Ama. Quello che ho percepito io, ma non sono la sola, è che i Big in gara hanno portato sul palco il compitino già fatto. Come prima, ripeto: tutto molto piacevole, ma da Sanremo voglio di più. Che ne è stato di quell’edizione del 2019 che sembrava aver cambiato il Festival? Forse l’ha cambiato troppo, al punto che quella che sembrava una novità radicale, è andata standardizzandosi un po’ come tutte le cose belle che si ripetono per il consumo. Non solo i vari “à la Mahmood” si sprecano, ma lo stesso Mahmood non entusiasma come le prime volte – nonostante sia la canzone sanremese che sto ascoltando di più. I volti nuovi non si giocano il tutto per tutto, ma preferiscono andare sul sicuro con formule preconfezionate, la cassadritta è come il prezzemolo perché è il sound del momento, e i nomi più attesi sono la copia di se stessi – sì, anche Annalisa.
Una risposta scientifica a questo fenomeno l’ha data Il Post nell’articolo “A Sanremo le canzoni erano tutte uguali”, lanciando una riflessione sul ruolo degli autori e delle autrici, e sulla loro egemonia nell’attuale mercato discografico. In breve: i brani di Sanremo erano tutti uguali perché scritti dalle stesse persone. Per capirci, tutte le canzoni sembrano Cenere di Lazza perché tutte sono prodotte da Dardust, un altro che ne firma un bel po’. Sono molto d’accordo e aggiungo un’altra opinione personale: i brani in gara sono uguali ad altri mille brani perché nessunə è davvero intenzionatə a vincere Sanremo, l’importante è partecipare – a parte Irama che ci crede fortemente da quattro anni. Come accennato prima, questa edizione ha palesato che ormai la kermesse non è altro che una vetrina promozionale durante la quale i Big sono chiamati a portare l’ennesima hit, preferibilmente estiva, come strategia discografica.
Così i The Kolors hanno riproposto la loro formula vincente, Ghali, seguendo l’esempio, ha esordito con un inedito “à la questa non è Ibiza”, mentre i Ricchi e Poveri hanno giocano la carta simpatia in salsa polka un po’ Rosa Chemical, per rilanciarsi sul mercato per un target giovane. Angelina Mango ha portato la Cumbia perché, si sa, le sonorità esotiche sono perfette per le classifiche da bella stagione, Rose Villain, nel dubbio, ha fatto due canzoni in una, per piacere sia ai teen che agli adult, Annalisa, invece, ha portato un ritornello killer che fa l’occhiolino all’algoritmo di TikTok. Perfino le nuove proposte non sono poi così “nuove” se arrivano da serie tv di successo, da notissimi talent show o da una gavetta di featuring importanti e streaming da capogiro. Tutte dinamiche che nell’ambiente sono ben conosciute, ma quest’anno perfino mia madre ha snasato il trucchetto. E chi ci rimette? Sempre noi. Certo, “i cileni ripieni di zucchero” la cantiamo ancora, ma come disse un vecchio saggio inglese, “ever get the feeling you’ve been cheated?”.
3. Il podio della discordia
Arriviamo alla finale e alla vincitrice Angelina Mango con la sua La noia – scritta e prodotta anche da Dardust, giusto per confermare la regola. Artista già data per vincente fin dall’annuncio della sua partecipazione al Festival, e non perché figlia d’arte (o, almeno, non solo), ma perché così doveva essere per una serie di motivi che vediamo più avanti. C’è chi ha detto “un podio giovane!”, chi ha gioito per la vittoria di una donna (finalmente! grazie Amadeus per aver reso giustizia alle donne!) e chi ha esultato alla faccia di Geolier.
Ebbene sì. Per rinfrescarvi la memoria, a un certo punto la competizione sanremese è diventata una guerra civile tra Napoli e il resto d’Italia che ha riportato a galla una cultura di discriminazione e stereotipi ben radicata verso il Sud. Premettendo che, secondo me, nessuno dei tre brani sul podio meritava di vincere, trovo assurdo, nonché vergognoso, il Geolier Gate. Lasciando riflessioni di carattere socio-culturale in altre sedi o chat online, penso ci sia un’enorme contraddizione in un Sanremo che ha fatto di tutto per coinvolgere più pubblico possibile, per poi fare retromarcia nel momento in cui è il pubblico stesso a decidere le sorti della competizione. Il polverone mi ha ricordato i tempi in cui i primissimi ex-concorrenti di talent come Amici di Maria De Filippi gareggiavano a Sanremo e, avendo dalla loro anche le simpatie del grande pubblico per ovvi motivi televisivi, finivano per conquistare il primo posto, scatenando le ire della critica e un j’accuse contro i telespettatori a casa. E Geolier ha suscitato lo stesso clamore, arrivando al punto di far compattare le radio e la sala stampa a favore di Angelina Mango (sì, tutto vero, confermato), come voto di protesta per arrestare la vittoria del rapper napoletano. Che poi, la storia italiana ce l’ha insegnato, che i voti di protesta non sono la soluzione.
E allora, quanto peso deve avere il pubblico nel sancire le vittorie di Sanremo? È giusto sminuire il suo voto? La fanbase vale meno della sala stampa? In futuro, sarà necessario un nuovo metodo di voto e premiazione? Lascio le risposte a chi competente. Da questa storia, però, è sicuramente emersa una critica giornalistica ignorante sui nuovi fenomeni pop del momento, che fieramente urla di non conoscere Geolier, uno con 5,4 milioni di ascolti mensili su Spotify ancora prima della sua partecipazione al Festival, e un errore di calcolo sull’impatto e l’importanza delle fanbase. Che poi, unə artista che arriva ai fan al punto di smuovere un supporto di massa e coinvolgimento attivo, non è forse l’evento più pop a cui potevamo assistere?
In ogni caso, il Festival di Sanremo è stata una vittoria per Geolier, ma la stessa cosa non si può dire per Annalisa. Il Caso Annalisa affonda le sue radici in un passato remoto che non possiamo approfondire in questa sede e di cui avrei bisogno di un’intera newsletter dedicata. Premettendo che, secondo il mio modestissimo parere, Annalisa quest’anno non aveva bisogno di gareggiare al Festival, all’apice di un anno di successo poteva tranquillamente presentarsi in qualità di ospite, spararci un medley di venti minuti e portarsi a casa la gloria che si merita, ma capisco che l’occasione era ghiotta, soprattutto per Amadeus. Ma, perché non ha vinto? Nel mio piccolo, mi sono data qualche risposta. In primis, la canzone era debole per il Festival di Sanremo 2024. Una hit gigante, certo, ma valeva il primo posto sul podio? No. Come altrə, anche la nostra eroina si è presentata con un brano da copione – anche se con Ragazza Sola avrebbe sbaragliato tuttə. Insomma, con tutte le attenzioni in pugno, poteva sferrare un bel gancio, ma ha preferito rassicurare con una carezza, facendo quello che tuttə si aspettavano.
Facciamo un passo indietro. Annalisa è sempre stata vittima di quello snobbismo giornalistico che ha colpito per molto tempo ex-concorrenti di talent show, inoltre la sua storia personale e artistica, ordinaria e senza grandi particolarità, aveva poco di sensazionalistico o “notiziabile”, e un carisma mediatico sotto la media. In breve: molto brava, ma non buca lo schermo. Arriva il cambio di rotta: nel 2022 la prima hit estiva, Tropicana, con i maghi dei tormentoni Boomdabash, dimostrando che l’artista ha una laurea in Fisica, ma sa anche giocare sporco se vuole. E così Annalisa si reinventa hit-maker con una serie di singoli azzeccatissimi che la incoronano popstar. Il suo percorso conferma la regola che nel music business, se non funzioni, prova a ballare, vestiti sexy e fatti scrivere i ritornelli giusti per l’algoritmo. C’è anche l’opzione reggaeton, ma questa è un’altra storia.
Dunque, Annalisa a trentasette anni si ritrova con un nuovo colore di capelli e il successo che si merita. E arriviamo a oggi, alla sua settima partecipazione al Festival. Provate a immaginarla, anni che prova a raggiungere la credibilità e i riconoscimenti popolari che sogna, finalmente ha tutto, le manca solo l’ultimo sassolino nella scarpa, quella dannata vittoria di Sanremo, che sembra ormai a portata di mano – e probabilmente l’hanno anche convinta che sarebbe stata la volta buona. Perfino l’annunciato duetto faceva ben sperare in una nuova presa di posizione discografica. E invece no. Sbagliano canzone, sbagliano pop, sbagliano edizione – e anche look, amo, se mi leggi, cambia stylist che le calze al ginocchio con giacca over fanno molto 2009. Ma, soprattutto, hanno sottovalutano l’Allerta Angelina Mango. Peccato. Forse Annalisa è la nostra Leonardo DiCaprio, che vincerà l’Oscar di consolazione quando sarà il momento meno opportuno. A noi poco importa perché Sinceramente la cantiamo anche fuori dalla doccia, ma questa storia lascia un po’ l’amaro in bocca e un’artista un po’ sprecata.
Un altro momento sbagliato è quello di Angelina Mango. Che la figlia d’arte del momento avrebbe vinto la competizione era chiaro a tuttə fin dall’inizio, ma non (solo) perché fa di cognome Mango, anche se è un bel boost per potersi permettere il meglio dal mondo discografico e molte porte aperte. Dicevo, era chiaro a tuttə perché è così che va il music business. Angelina Mango è l’ennesima prova di come la discografia si muove come un’industria fordista. È sempre successo e sempre succederà, ma ormai, quella che chiamano “la ricetta vincente”, è solo una strategia preconfezionata da applicare al nuovo cavallino su cui scommettere, e se non arriva al traguardo o ci arriva con gli zoccoli spaccati, poco male, avanti un altro.
Per farla breve, penso che l’ansia da streaming, i social, l’algoritmo e i sold out a tutti i costi siano sfuggiti di mano agli addetti ai lavori – e, ahimè, non solo a loro. L’aggravante della nostra epoca è il tempo: sempre poco, stretto, da consumare a tappe veloci e serrate; non basta mai, c’è sempre bisogno di novità, di stare al passo col nuovo trend, con le playlist della settimana, ce lo strappano dalle mani se proviamo a volerne un po’ per crescere, capirci e sbattere la testa contro un muro. Se sto parlando della discografia o della vita, a voi decidere. E così è stato per Angelina Mango. Non sono qui per mettere in dubbio il suo talento e la sua professionalità, tanto meno la sua persona, ma per analizzare la sua vittoria e come ci è arrivata, ovvero: presto.
Adesso possiamo dirlo: La noia non è una canzone da primo posto, forse nemmeno da podio. La vittoria fa parte di un percorso ben pensato, non più un traguardo, ma un passaggio obbligato. Nel 2020 il primo singolo, l’anno seguente un EP e nel 2021 Angelina Mango firma il contratto con la Sony. Seguono qualche singolo, il palco del Concertone del Primo Maggio e un’apparizione televisiva. Poi arriva il talent show di turno, in questo caso Amici di Maria De Filippi, dove arriva seconda, ma prima nella categoria canto, e il resto è su Wikipedia. Voi ci vedete una ragazzina e il suo sogno che si realizza, io ci vedo una macchina ben oliata. Per carità, qua parliamo di pop, non di centri sociali, e non tutti devono (o vogliono) fare la gavetta da emergenti, e c’è chi ha la fortuna, o il privilegio, di poter puntare dritto al suo desiderio migliore. Tuttavia, penso che in due anni Angelina Mango ha fatto tutto, ha ottenuto tutto, è stata acclamata come artista rivelazione ancor prima che ci accorgessimo davvero di lei. E adesso?
Un’industria è tale perché costruisce prodotti sfruttando le abilità di chi le possiede e quella discografica non fa eccezioni. Però la sensazione, da qualche anno a questa parte, è che si pensa a “costruire” solo il percorso prima dell’artista stessə. Per questo motivo penso che la vittoria di Angelina Mango a Sanremo 2024 sia problematica, non perché non è brava, ma perché è precoce. Avrei preferito ci arrivasse con i suoi tempi, con una sana maturità artistica e una propria consapevolezza professionale – e con una canzone migliore. E invece, come moltə altrə prima di lei, ha preferito bruciare le tappe. Almeno il pubblico non ci rimette, esaurita una star si passa a quella dopo. Ma l’artista spesso sì. Non so se è il caso di Angelina Mango, è presto per vedere nel suo futuro, ma questa corsa frenetica a tagliare il traguardo prima della partenza, che ormai caratterizza il modus operandi della discografia, fa le sue vittime – c’è chi cade, chi barcolla, chi cade e si rialza, e chi si ferma per riprendere le forze, come Sangiovanni, ad esempio. Personalmente penso che, nel pop come in altri ambiti, alla fine della fiera resta chi ha davvero qualcosa da dire e lo fa con consapevolezza, ci vuole il famoso X Factor, ma anche tempo. Al momento, più mi guardo intorno più vedo prodotti di plastica ben confezionati a cui difficilmente darei fiducia sulla lunga distanza – ma magari mi sbaglio. Quale sarà il caso di Angelina Mango non lo so, ma penso che anche noi, come tutto quello che ci circonda, stiamo correndo troppo ad urlare già al nuovo miracolo discografico italiano.
Dunque, la 74° edizione del Festival di Sanremo probabilmente non sarà ricordata negli annali del nostro cuore, se non per aver lasciato molte polemiche alla sua fine. Per me, resterà l’anno che ha palesato al pubblico a casa come funziona il mercato discografico e molto altro. Ho sempre pensato che eventi come il Festival di Sanremo sono più belli se non sai cosa c’è dietro, ma se perfino la giovanissima vincitrice festeggia sul palco dell’Ariston con al fianco la sua manager, svelando che dietro unə grande artista c’è sempre unə grande manager (in questo caso, Marta Donà), vuol dire che non c’è più magia, nemmeno nei sogni.
Brava. Ho solo un'obiezione (la solita) e un'aggiunta.
L'obiezione: le canzoni che di più assomigliavano a Cenere sono state scritte e prodotte da persone diverse, quindi secondo me il problema della biodiversità del pop italiano è a monte, rispetto a quanto dice l'articolo del Post. Cioè, non è il frutto di una conventicola, è il solito maledetto conformismo italiano a cui si aggiunge la mentalità major di fare hit replicando altre hit. Che poi, secondo me, leggerla così rende ancora più solida la tua argomentazione: è la macchina che fa la macchina, e non importa chi abbia il controllo delle manopole.
L'aggiunta: giustissima la frase sull'ansia di fare prima il percorso e poi l'artista, ma su Angelina Mango osservo anche la corretta scelta del mgmt di non buttarla subito sui palchi più grandi, farle fare i live nei club (ok, i club più grossi, but still) anziché portarla in trionfo verso stadi e mega open-air come certi talenti gardesani; non so se questo aiuti a diventare artist* migliori, ma penso ti esponga meno a grossi drammi tipo burnout o secondi dischi imbarazzanti.