Lessico familiare stagionale
Non odi l'estate: sei solo cresciuta in una piccola impresa stagionale a conduzione familiare
Se ami l’estate, probabilmente hai meno di 18 anni o sei nata ricca. Al contrario, stai lavorando da quasi vent’anni nell’attività stagionale della tua famiglia. E anche quest’anno, puntuale come un tormentone estivo, arriva il tuo turno al bar e ti domandi dove hai sbagliato (ancora)
Ho iniziato a scrivere questo post molti mesi fa, doveva essere una cosa leggera, ironica, ma alla fine è diventato più ingarbugliato di quello che pensavo. Come una Natalia Ginzburg dell’Internet, forse non avevo voglia di parlare di me e mi sono ritrovata a scrivere della mia famiglia e di cosa significa lavorarci insieme. Non so se quello che sto per scrivere aiuterà qualcuno a sentirsi capito o rappresentato, ma questo dramma troppo a lungo ignorato andava raccontato – e chi sono io per non sacrificarmi per una giusta causa? Oppure, semplicemente volevo giustificarmi per ogni volta che, d’estate, divento la versione Temu di me stessa, con capelli sporchi, i vestiti e la personalità di quando andavo alle medie, e tutto il kit completo di abbrutimento di quando si torna a casa dei propri genitori.
La storia della mia famiglia si lega all’attività lavorativa dei miei genitori, ereditata dai miei nonni paterni e incasinata da intrecci familiari che non vi sto a raccontare perché ancora non ci ho capito niente. Si tratta di un’attività di ristorazione stagionale a cento metri dal mare, che gestiscono da quasi cinquant’anni, e che, da una decina d’anni, è passata in parte, a mio fratello. I miei si sono sempre fatti il culo per portarla avanti e, soprattutto, per lasciare qualcosa ai loro figli. E ogni volta che ci penso, mi sale un peso alla bocca dello stomaco che non va né giù né su: sta lì come un boccone indigesto. Da che ho memoria, da marzo a ottobre i miei genitori hanno sempre lavorato, mai saltato un giorno, e in quel periodo la vita si sposta tra le mura del ristorante, del bar e dell’albergo – la nostra casa viene letteralmente abbandonata, se non per dormire. Tutto ha sempre girato intorno alla stagione lavorativa.
I principali ricordi della mia infanzia sono legati a quei momenti, potrei scriverci un libro, se qualcuno lo pubblicasse. Non sono mai andata al mare con i miei genitori. Ho un confuso ricordo di mia madre in un costume maculato, ma lei nega; probabilmente è uno scherzo della memoria tra reminiscenze d’infanzia e vecchie fotografie. Ci andavo da sola al mare, allo stabilimento di fiducia o affidata ad altre famiglie, e tutti i bambini e le bambine invidiavano che potessi fare quello che desideravo, ma in realtà anch’io avrei voluto qualcuno che mi proibisse di fare il bagno dopo aver mangiato il gelato. A un certo punto è arrivato anche il mio turno dietro al bancone (no, ero maggiorenne, scusate la delusione). Prima all’edicola, poi in sala e infine al bar. Ho fatto anche un breve passaggio in rosticceria durato letteralmente 30 minuti: esperienza che non auguro a nessuno, a meno che non vogliate provare l’ebbrezza di avere un muro di fiorentini che urlano per avere la loro lasagna. E così sono trascorsi quasi vent’anni. Lato positivo: so portare cinque calici da vino in una sola mano e avrò sempre rispetto per chi lavora al pubblico.
Spesso mi sono chiesta perché l’estate mi provochi un forte disagio, un malessere esistenziale pari solo al fatto di non essere nata con gli occhi verdi. Sicuramente non essere ricca o non avere ancora quel lifestyle che manifesti con tutta la tua energia zen non aiuta. Ma ormai ho capito che odio l’estate perché, per me, è sempre stata una lunghissima, complicata domenica in famiglia – in cui sentivo che la mia vita si fermava.
Nella mia famiglia il lavoro è sempre stato la priorità. So già che leggendo questa affermazione i miei genitori, come molti altri, avrebbero da ridire, perché la priorità è sempre il bene dei figli e delle figlie. Ma in questo caso il lavoro è diventato terreno di edificazione e collante emotivo e relazionale all’interno delle dinamiche familiari, diventando, appunto, una priorità. E la storia si complica se di mezzo c’è anche un’azienda stagionale da gestire insieme. Perché il problema non è il lavoro, soprattutto se hai un Sole in Capricorno come nel mio caso (e in quello di mia sorella e mio fratello); ma il condividere spazi di lavoro e domestici, per 24 ore, 7 giorni su 7, che si fanno sempre più piccoli ed emotivi, e i ruoli che diventano ingombranti, pesanti e perdono i confini.
Per carità, ai miei genitori devo tutto. E non gliel’ho mai detto abbastanza, e forse mai detto davvero. Risparmio gli aneddoti, i drammi, ma anche le risate e i ricordi per la mia futura opera prima in copertina rigida rosa cipria, quello che vi serve sapere ora è che, nel mio piccolo, ho sempre cercato di essere una figlia impeccabile, per ripagare i miei di tutti i sacrifici e gli sforzi che hanno fatto. E credo che in questo tema rientri anche l’obbligo che sento di dover lavorare con la mia famiglia. Ho sempre apprezzato l’entusiasmo e la passione che i miei hanno sempre messo nel loro lavoro: dal servire il cliente, al preparare un primo di mare, e perfino a ordinare le sigarette in tabaccheria. Un’etica lavorativa che in parte, però, mi ha sempre un po’ stizzita, perché, lo capisco solo ora, mi faceva provare un obbligo emotivo di aderire a un piano più grande di me a cui non mi sentivo di appartenere. E allora da ragazzina metti il muso, ti chiudi in te stessa e aiuti tua mamma in edicola trascinando i piedi e rispondendo a monosillabi. Oggi, invece, quasi che quel peso è scomparso come un tormentone estivo quando arriva l’autunno – e il lavoro ha una certa leggerezza e un altro valore.
Ora, provando a capire dove voglio andare a parare con questo discorso, la domanda è: cosa significa crescere in una piccola impresa estiva a conduzione familiare? Chi mi conosce sa bene che questo è un tema importante per me, il mio Impero Romano esistenziale. Immaginate una stagione di The Bear che dura da più di trent’anni, con tutte le complicazioni emotive che le relazioni umane e familiari sanno far emergere, e reprimere, con l’unica differenza di non essere un ristorante rinomato di Chicago gestito da Jeremy Allen White. Aggiungete un fastidioso, ostinato pensiero ossessivo che ti sussurra all’orecchio, da circa vent’anni, che ogni volta che torni a lavorare dalla tua famiglia hai fallito nella vita. Che poi, cosa significa realizzarsi nella vita? Si può misurare la realizzazione o meno della propria vita sulla base di qualche passo incerto, pause o ritorni sui propri passi? Dopo anni di crisi e una propaganda a favore della “vita lenta di provincia”, ancora abbiamo paura ad accettare di “tornare a casa dei genitori” come sconfitta personale?
Personalmente, sì, ma inizio ad avere seri dubbi. Da quando ho lasciato casa dei miei a 19 anni, ogni estate sono sempre tornata per aiutarli durante la stagione estiva. Per molto tempo da maggio a ottobre, poi sempre meno, fino a farmi la stagione solo ad agosto e poco più negli ultimi anni. Quello che può sembrare un fatto normale, per me è ed è sempre stato fonte di stress. Questo perché non è un semplice lavoro stagionale, ma un patto di sangue familiare. Per farvi capire, la prima volta che sono rimasta a Bologna, città dove vivo, fino a fine luglio e sono andata al mare con le mie coinquiline, per la prima volta in dieci anni, ho passato la giornata tra scottature solari e sensi di colpa, sapendo che la mia famiglia stava lavorando mentre io me la spassavo sulla costa romagnola col culo a mollo. Sicuramente dai miei genitori ho ereditato un forte senso del dovere, del sacrificio, una dipendenza dal lavoro e il giudicare le persone da come lavorano, e questo non ha aiutato. Ma il punto della questione sta nel temere che non avrai altra vita al di fuori di questa. Se parlate con mio padre, ancora dà per scontato che io porterò avanti l’azienda di famiglia e il suo sudato lavoro di una vita. E il fatto di tornare ogni anno al bancone del bar un po’ ti fa sospettare che sarà così. Perché, non importa quanto impegno ci metti a costruire la tua vita, la tua carriera, la tua routine e la tua storia personale, e, perché no, anche le tue stupide abitudini, ogni estate tu torni al punto di partenza.
Ci sono stati momenti in cui la prendevo malissimo, come se l’estate fosse un profondo buco nero che mi risucchiava e settembre una ripartenza faticosissima per riprendere in mano la mia vita; altri momenti “ok”, in cui mi raccontavo che era una parentesi temporanea e dovevo essere fiera di essere quel tipo di persona che non ha problemi a lavorare sodo d’estate per aiutare la sua famiglia. La verità sta nel mezzo, ma non l’ho ancora trovata. A volte invece penso che sia una buona via di fuga avere una sorta di doppia vita. Come una Hannah Montana senza parrucca, ti rifugi nell’anonimato familiare, in una località balneare dimenticata da Google Maps a fare la barista fino a settembre, per staccare dallo stress quotidiano e abbracciarne un altro che appare meno impegnativo almeno in termini di investimento emotivo sul proprio futuro. Magicamente non ricordi più chi sei, quali sono i tuoi interessi e cosa ti piace, e fai perfino fatica a portare avanti le tue amicizie a distanza. Insomma, una nuova identità, con meno cura personale e più lontana dalla versione di te che vorresti diventare, ma che hai imparato ad assecondare e con cui provi a trovare la tua stabilità. Bello, no? Ma cosa succede se questa pausa diventa un infinito giorno della marmotta da cui non sai più uscire?
Provando a farla breve (non sarà breve), sono giunta alla conclusione che le attività a conduzione familiare possono innescare ricatti emotivi e dinamiche di co-dipendenza da cui è difficile staccarsi. Ripenso a quando i miei mi pagavano l’università ripagandoli col lavorare da loro. E tu, con la sindrome della brava bambina, che fai? Accetti, e ti sembra anche un giusto compromesso e l’ennesima prova per compiacere i tuoi. Inoltre, il senso di colpa è sempre dietro l’angolo e la parte di te di cui ti vergogni non vede l’ora di rifugiarsi tra le gambe della mamma quando la tua vita non è come vorresti. Questo, tra l’altro, non aiuta la crescita personale e l’autodeterminazione, poiché il ritorno a casa diventa un momento di regressione e benzina su quel fuoco che è l’infinita post-adolescenza della nostra generazione – e avere i soliti clienti che da dieci anni ogni estate ti chiedono come va lo studio non aiuta. E io ci credo quando mia mamma mi dice che sarà felicissima quando non mi vedrà più tornare a casa d’estate, ma allo stesso tempo, ogni febbraio, arriva la chiamata per confermare la mia presenza al bancone del bar, riallacciando quel cordone ombelicale che ti eri ripromessa di tagliare. Per questo motivo, lo dico e lo ripeto da sempre su Twitter a tutte le persone che lavorano con la propria famiglia: se non siete davvero interessati, scappate il prima possibile.
Tra le tante, sconclusionate riflessioni a supporto della mia tesi, c’è quella di tipo economico. Per quanto crescere in un ambiente lavorativo sia formativo sotto vari aspetti (e credo davvero che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero fare la stagione estiva), dall’altra parte c’è sempre il rischio che possa incastrarti in un’indipendenza economica illusoria e, peggio, non prepararti davvero al mondo del lavoro fuori dalle mura domestiche. Ad esempio, per anni ho avuto una visione distorta del lavoro, un rapporto ansioso col denaro e ancora oggi, sempre quella parte di me di cui non vado fiera, fatica a concepirsi come membro funzionale nel tran-tran aziendale, nonostante la volontà e i curriculum inviati. Questo perché ci sarà sempre una vocina intrusiva che ti dice che non vale la pena perché tu tornerai a lavorare dai tuoi e, ammettiamolo, è un piano b che, zitto zitto, è sempre nascosto in qualche anfratto della tua mente e difficile da sfrattare. Ad aggravare la situazione c’è anche un momento storico economico decisamente critico, infelice e frustrante, che ti fa venir voglia di mandare tutto a fanculo e tornare a vivere dai tuoi genitori. Almeno quello che guadagni non se lo mangia il proprietario di casa con l’affitto, non hai l’ansia ogni volta che vuoi concederti una cena fuori e l’azienda di famiglia non ti rifiuta il curriculum. Improvvisamente l’idea si fa allettante. Il prezzo da pagare è solo la salute mentale e la paura, a quasi quarant’anni, che la versione di te, quella emancipata, adulta, libera professionista che fa yoga tutti i giorni, forse non si realizzerà mai. E che incubo se poi rischi di scoprire che non era davvero quello che poteva renderti felice – ma questa sarà un’altra storia.
Ci sarebbe anche un’altra riflessione sul perché le piccole realtà a conduzione familiare possono essere emotivamente una trappola, ma riguarda il momento in cui realizzi che i tuoi genitori stanno invecchiando, e vedere tuo padre lavorare in edicola o tua madre china sui fornelli ti fa salire un senso di apprensione come se fossero loro i figli e tu il genitore, ma non siamo pronti ad affrontare questo argomento.
Arriviamo alla fine. Sono tornata a casa dei miei genitori da circa dieci giorni: già operativa al bar, molte pizze mangiate e tanti buoni propositi non mantenuti. Sono qua che scrivo questo poema iniziato ormai molti mesi fa, provando a capire cosa volessi davvero raccontare. Probabilmente niente, forse solo mettere nero su lilla quella parte della mia vita che a volte ha divertito sui miei social, altre volte ho tenuto ben nascosta. E mentre guardo la pineta dalla porta di casa, penso che alla fine, se mai dovesse esserci una lezione, sarebbe da cercare a metà strada tra l’accettazione e il volersi bene. Non so se l’ho trovata, ma da quando rinnegavo e rifiutavo tutto ciò che riguardava il mio paese di origine ad oggi che ne scrivo, qualche nodo l’ho sbrogliato. Che poi si sa, la famiglia è un gran casino ingarbugliato, in cui tutti hanno colpe e nessuno è colpevole, e lavorarci insieme è un’impresa per cuori forti e boundaries solide. Quindi, non mi stancherò mai di ripeterlo, se capite che un’impresa familiare non fa per voi: scappate. Se ancora ci state pensando, posso solo consigliarvi di armarvi di magnesio e moltissima pazienza. E ricordatevi che anche la giornata più logorante e stressante si concluderà con le chiacchiere tra colleghi a fine servizio, magari frescheggiando sotto la luna e una bevuta in mano, raccontandovi le peripezie lavorative che diventeranno ricordi impagabili. Se invece hai quasi quarant’anni e sei ancora in questo limbo, fatti qualche domanda, ma non cercare tutte le risposte. E, soprattutto, non pensare che ogni estate trascorsa così abbia un significato più grande di quello che è. E mentre indaghi se il tuo abbrutimento è una fase passeggera, è solo pigrizia o temi che sia la tua vera natura, ricorda che l’incoerenza è umana e accettarla è un gesto d’amore verso la bambina che è in te che ancora non ha capito niente della sua vita. E se provi perfino sollievo a rifugiarti tra le mura domestiche, e fare tutto quello che non faresti normalmente, in un momento di confusione, debolezza, demotivazione o chissà che altro, non essere troppo dura con te stessa, che tanto settembre arriva sempre.
Che poi, la morale della storia è sempre quella: siamo Cucciole e quindi, per autocitare la mia magnum opus precedente, a voi che leggete e che non sapete cosa voglia dire lavorare al pubblico durante la stagione estiva in un’attività familiare, consiglio di portare pazienza e gentilezza a chi vi serve. Davanti a voi potrebbe esserci una Cucciola che sta provando a essere la versione migliore di se stessa, ha messo in pausa le sue ambizioni, o magari non sa nemmeno più quali sono, sta lavorando senza aria condizionata da cinque ore e ne ha altre quattro davanti, ha appena pulito il water del bagno dalla merda di un cliente con un attacco di cagotto, ha i crampi allo stomaco per la sua intolleranza al lattosio ormai trascurata, il sudore le cola tra le gambe, una ventina di caffè da fare e una fila di dieci persone alla vetrina del gelato ancora da smaltire. E, nel mentre, sta anche provando a non deludere i suoi genitori.