Cosa succede se Achille Lauro cita se stesso (ulalalalalala)
Un insegnamento di vita? Il ritorno alla samba trap? Sicuramente il ritorno della mia newsletter
Perché mi ritrovo a scrivere di Achille Lauro nel 2023 non mi è ancora chiaro. I motivi che mi stanno portando a trattare la parabola meta-musicale del fu personaggio più controverso d'Italia molto fuori dal tempo massimo sono vari. Vi basti sapere che probabilmente, inconsciamente, questa newsletter è nata proprio dal mio bisogno di sviscerare, analizzare e destrutturare il fenomeno Achillone nazionale dalla sua prima apparizione sanremese nel 2019, con cui ho tediato metà dei miei contatti WhatsApp e non solo. Ho sempre detto “ah se solo avessi uno spazio dove poterne parlare...” non sapendo che stavo costruendo il mio futuro: questo attimo. E così, se è vero che le strade del Signore sono infinite, anche quelle dell’Internet non sono da meno e oggi mi portano a scrivere di Achille Lauro come se fosse ancora rilevante.
Dove andrà a parare questo mio articolo non l’ho ancora capito, ma so bene da dove è partito e mi sembra un buon inizio. Per chi non ha la fortuna di avermi come amica nella vita reale: dovete sapere che tra i miei principali guilty pleasure c’è la musica pop (e i balli di gruppo, le canzoni di chiesa, mangiare la mozzarella con le mani in piedi davanti al frigo e molte altre cose) e il piacere giunge al suo apice più o meno a giugno, quando le classifiche commerciali sono intasate dai tormentoni estivi. Ebbene sì, avrei potuto avere una passione più ricercata, invece ho scelto di coltivare quella che non piace a nessunə perché piace a tuttə. È proprio un’attrazione innata: i ritornelli mi restano in testa per anni, in barba a chi li vuole con la data di scadenza a settembre, e i balletti nascono nella mia testa come guidati dallo spirito di Joey Di Stefano. Per farla breve, recentemente ho dovuto realizzare un articolo per la massima testata in campo di canzoni pop (e tv e sorrisi) per ricapitolare i principali tormentoni estivi che ci accompagneranno per tutta la calda stagione. A titolo informativo ci tengo a segnalarvi che mentre scrivo è stato annunciato Taxi sulla Luna, singolo di Tony Effe ed Emma Marrone, prodotto da Takagi & Ketra – e spero vivamente sia talmente brutto da restarmi in testa fino a Natale. Dicevamo. Tra un flop di Fedez che ci sbaglia il pezzo nonostante sia accompagnato dalla finalmente-rivelazione-delle-hit Annalisa - che invece conferma la regola del chi fa da sé fa per tre, perché il suo ho visto lei che bacia lui che bacia lei che bacia me si fa ascoltare all’infinito - e un duetto Mengoni-Elodie che personalmente mi lascia indifferente, una canzone ha attirato la mia attenzione: Frangole di (taaaac) Achille Lauro feat. Rose Villain.
Lo dichiaro subito: a me questo pezzo piace molto non ironicamente. Niente provocazioni, niente avanguardia. Si tratta di un pezzo piacevolmente pop, altamente orecchiabile e ha un ritornello che ti entra subito in testa come un pensiero intrusivo. Per farvi capire quanto è efficace: nel testo non è citata nessuna marca di bevande e superalcolici, eppure funziona lo stesso. Ora, non so bene cosa mi abbia conquistata - se il ritmo reggaeggiante, che culla la mia inner child cresciuta con gli amici di suo fratello maggiore che suonavano i bonghi, o la melodia tra Tropicana di Gruppo Italiano e un vago eco di The Tide is High dei Blondie - fatto sta che questo pezzo è entrato immediatamente nella mia top 3 (al momento al fianco di Mon Amour e Mani in alto).
E se già questo ha dell’incredibile, adesso arriva la parte migliore. Mentre la canzone volge al termine, all’improvviso, senza nessun avvertimento, Achille Lauro intona ulalalalalala. Ma non un ulalalalalala qualsiasi, bensì proprio quel ulalalalalala dell’omonima canzone feat. Gemitaiz. Non so se ho mai provato l’esperienza delle madeleine di Proust, ma questa volta ci sono andata molto vicina. Non solo, il bridge continua citandone il ritornello, confermando il ponte semantico-musicale tra i due brani. E qua esplode il cervello (e il cuore). Non vi dico la quantità di finestre di pensiero che questo evento mi ha aperto, ma proverò a mettere in ordine alcune riflessioni per giungere
a una conclusione più o meno soddisfacente, dandovi l’illusione di non aver scritto solo per mio diletto.
Il Fenomeno Achille Lauro mi affascina e tormenta da quel 6 febbraio 2019, quando il nostro eroe debutta sul palco dell’Ariston con completi sartoriali, catene post punk e un’inaspettata attitudine alla Vasco Rossi. Intona i versi del brano Rolls Royce che, cito Wikipedia, “si discosta ampiamente anche dalla sonorità samba trap di Pour l'amour, tanto da essere catalogato come brano rock” (gesto del rock con la mano). Innegabile che Rolls Royce fosse, e sia tuttora, un pezzo incredibile e che Achille Lauro abbia dato prova non solo di sapersi reinventare da capo a stivaletti in pelle, ma anche di essere un hit-maker dal fascino nazional-popolare. Tuttavia, per tuttə noi che lo conoscevamo per Barabba e Ragazzi Madre, il cambiamento radicale ha storto più di un naso.
Lungi da me indagare e giudicare i motivi dietro a simile rivoluzione stilistica, l’unica cosa che ho pensato ad alta voce è stata: è proprio vero che in Italia tira più il (gesto con la mano) rock che un carro di buoi. Sembra quasi che nel game del mercato discografico del pop, la più immediata delle varie opzioni che ti si presentano sia quella di trasformarti in rock star dannata. E così il dilemma tra pillola blu e pillola rossa offre una terza scelta meno indolore: la pillola rock. Imbracciata la chitarra, indossato un chiodo di pelle e performando un atteggiamento à la Blasco, Achille Lauro ha cristallizzato e lanciato quello che io chiamo con poca fantasia il Fenomeno Achille Lauro. L’artista ha gettato le basi per una tendenza che nel corso degli anni si è spesso ripetuta, creando un precedente pericoloso per la salute di altri artisti – usando il maschile non a caso. Su tutti spicca il caso Rkomi che, nella sua ascesa verso l’Olimpo dei Big della musica italiana, ha vestito panni attillati di pelle e debuttato la sua nuova personalità a Sanremo 2022 con Insuperabile (ma anche Chiello ne è un esemplare perfetto). Insomma, non mi stupirei se Baby K, un giorno, per scrollarsi di dosso la nomea di hit-maker da spiaggia e conquistare un po’ di credibilità oltre i tre mesi della stagione balneare, si trasformasse in una Gianna Nannini con le extension.
Il resto è storia. Il successo di Achille Lauro corre sulla bocca di tuttə, complice un amore- odio estremo che sempre aiuta a conquistare la massa e raggiunge l’apice con una polemica a Striscia la Notizia che persino mia madre mi riportò e una hit estiva con Fedez. La ricetta è semplice, ma efficace: atteggiamento da bad boy, ma senza celare una certa sensibilità (che poco dopo farà infatti breccia nei cuori di chi si sente ai margini della società), provocazione e una serie di singoli tutti palesemente uguali, ma che ci hanno fatto sognare ogni volta. Senza aprire un’altra volta Wikipedia, ricordiamo il suo ritorno a Sanremo l’anno seguente con Me ne frego che ha segnato un’ulteriore digievoluzione del soggetto Lauro: la “queerizzazione”. Non più Vasco Rossi, ma il main trait della sua nuova personalità diventa un David Bowie dei tempi glam rock di Ziggy Stardust, complice anche una collaborazione col marchio Gucci sotto la visione creativa di Alessandro Michele. Brevemente, posso dire: agghiacciante.
Eppure ero l’unica a pensarla così. O meglio, non ero l’unica, ma non potevamo dirlo a gran voce. Perché? Perché all’improvviso Achille Lauro era diventato (o lo avevano fatto diventare?) il paladino della comunità LGBTQ+ italiana e non si poteva criticare. Lungi da me mettere bocca su come e da cosa si senta rappresentata una minoranza di cui non faccio parte e di cui non posso capire profondamente le necessità. Ho solo pensato che tutto questo stridesse con l’identità di Lauro, poco prima ben lontana da certi valori. Non posso nemmeno pretendere da un artista che sia coerente all’immagine che io ho di lui o che rispecchi sinceramente le aspettative che gli sono state riversate addosso. Insomma,
Achille Lauro ha favorito e accolto a braccia aperte il ruolo che gli è stato dato e se l’abbia fatto in buona fede o surfando una ghiotta occasione, non ci sarà mai dato saperlo.
E se qualcunə si sente rappresentatə dal bacio tra Achille Lauro e Boss Dom in prima visione sulla Rai chi siamo noi per giudicare? Nessuno, tuttavia la puzza di queer- baiting e rainbow-washing non me la leverete mai.
Un altro dilemma che non riuscirò mai a togliermi dalla testa è: ma Achille Lauro ci è o ci fa? La risposta brancola ancora in almeno tre chat sul mio telefono.
Questa fase di Achille Lauro, che possiamo chiamare Guccification, ci insegna un’altra cosa sul mercato discografico: se hai conquistato la massa, puoi conquistare anche la nicchia. E così via con tutine attillate di pailletes che seducono tanto fan di Gucci quanto quellə di Raffaella Carrà, provocazioni montate come un letto Ikea che scandalizzano le nonne sì, ma sono normalizzate dalla tv nazionale, e tutta una serie di uscite artistiche- concettuali che vi prego non fatemele cercare su Google.
Poi qualcosa si è rotto, Achillone e il suo entourage hanno, scusate il francesismo, cagato fuori dal vaso. L’inizio della fine è stato sancito dalla sua presenza al Festival di Sanremo del 2021 come ospite fisso nelle vesti di: opera d’arte. Ancora oggi ho difficoltà a parlarne a causa del trauma che mi ha provocato. In poche parole: cringe. Ma non cringe in senso positivo, come il meme della mucca sulla spiaggia che guarda l’orizzonte e capisce che cringiare è la vera libertà. No, le opere d’arte di Achille Lauro a Sanremo erano cringe nel vero senso della parola, con la C maiuscola. Non solo gli abiti di Gucci stonavano (come sempre, possiamo ammetterlo adesso?) col soggetto, ma la “performance” ha svelato cosa si nasconde dietro il cerone dell’artista: un gigantesco ego.
Il suo intervento avrebbe potuto dare spazio alla comunità, alle voci emarginate e diverse, che lo hanno innalzato a loro portavoce e che lui non si è certo tirato indietro dal rappresentare e invece è stata solo l’apoteosi di se stesso. E così - mentre chi come me, per la terza volta, si ritrovava a guarda Achille Lauro sul palco dell’Ariston e urlare allo schermo dai amo facci la samba trap - l’artista continuava a rinnegare le sue origini e si cimentava nella parodia di se stesso in un mix di imbarazzo, disperazione e arroganza.
Da quel momento qualcosa si è rotto – o si è aggiustato, dipende dai punti di vista. Un po’ come l’album Rush! dei Maneskin ha dato il bomba libera tuttə a poterli criticare musicalmente, non più schiavə di quell’incantesimo chiamato Branding e dell’omertà che ci impediva di dire a gran voce che stavate prendendo un abbaglio, stessa cosa per Achille Lauro. E adesso che si fa? Ci si reinventa. Cantautore intellettuale. Performance artistiche, teatro, iniziative concettuali, cori gospel e singoli emotivamente epici e introspettivi – perfino un video di Marilù che cita Kurt Cobain. Indubbia la bravura dell’artista come chimera del pop, quel che stona è la sua continua evoluzione, che qualcunə chiamerà eclettismo, io invece chiamo ansia discografica.
Se le evoluzioni artistiche e stilistiche del buon vecchio Achille siano genuine o strategiche ancora, ahinoi, non è dato saperlo, ma possiamo ricavarne una riflessione. Pare che tra le pillole offerte dal Signor Sistema Discografico, arrivi inevitabilmente a un certo punto quella della Cultura. Tolta ogni ironia, ogni provocazione, eccentricità o quant’altro, spesso e volentieri, quando il gioco si fa duro i duri devono cominciare a essere concettuali. Una sorta di giustificazione al proprio lavoro e al proprio desiderio di scalare le grandi classifiche. Tutto deve essere motivato e contestualizzato da risvolti
intellettuali o veicolato da una narrazione di grande maturità e cambiamento introspettivo, pena non essere presə sul serio. Che poi, abbiamo davvero bisogno di tutta questa serietà costruita a tavolino? Il pop da classifica deve esasperare sentimenti dove non ci sono? L’emotività tira più del rock che tira più di un carro di buoi? (Sì) Che una crescita personale vada di pari passo con quella artistica è innegabile, ma spesso pare un’esigenza più del project manager che dell’artista. È quello che nella mia bolla chiamiamo il Fenomeno Marracash, che ha toccato ultimamente anche Tedua col suo ritorno La Divina Commedia – che sto analizzando in almeno due chat Instagram, vi aggiornerò.
2023, torniamo a Fragole. Dopo questa indagine cronologica del Fenomeno Achille Lauro, capite bene che quel bridge che cita Ulalala adesso prende tutt’altro valore. Non solo conferma l'autoreferenzialità che ha sempre contraddistinto la sua carriera, nel caso ci fossero ancora dubbi, ma anche che il percorso dell’artista ha fatto il giro e lo ha portato a citare se stesso, a metà tra un eccesso di egotismo e una ciclicità karmica.
Non solo, l’aspetto più importante che voglio cogliere, se proprio la parabola di Achille Lauro può insegnarci qualcosa, è che alla fine della fiera la coerenza premia sempre. Ora, non so se quel bridge è frutto di scarsa fantasia da parte dell’artista o accoglie le nostre preghiere di farci la samba trap, ma mi piace pensare che dopo mille peripezie stilistiche il nostro eroe abbia capito che alla fine basta fare quello che ti riesce meglio. Attenzione, non voglio premiare l’involuzione o il restare impantanati in un copione esistenziale di se stessə, ma valorizzare la coerenza con la nostra identità e quello che sentiamo. Nel settore discografico, ma anche - lasciatemi esagerare! - nella vita, essere fedeli a se stessə è forse la strategia migliore. Ben vengano sperimentazioni, aperture, evoluzioni, ma penso che il percorso debba sempre essere genuinamente guidato da ciò che sentiamo nostro, affinché funzioni in modo efficace, credibile e duraturo. E questo vale sia che si faccia trap, indie, elettronica o non si voglia fare un bel niente. E voi direte grazie al cazzo del consiglio, ma credetemi che nelle intemperie della vita ancorarsi a se stessə non è sempre scontato.
Non so se questa morale vi soddisferà, se prenderete questo scritto come un inno alla spensieratezza dei tormentoni estivi o come un mio ritorno a scrivere perché ne avevo semplicemente voglia. Ad Achille Lauro, invece, posso solo dire amo facci la samba trap, facci Thoiry.